Ferdinando Donzelli

LA FORMAZIONE ARTISTICA e i RAPPORTI CON ADOLFO TOMMASI
di Ferdinando Donzelli

Poche sono le testimonianze e le documentazioni rimaste di questo periodo e del rapporto tra il giovane  Lomi  e il già maturo e affermato pittore Adolfo Tommasi, più anziano dei cugini Ludovico e Angiolo. Adolfo Tommasi ha un atelier di pittura frequentato da numerosi allievi ed allieve; da parte di giurie e Commissioni Artistiche ed ha molta considerazione presso i contemporanei e nell’ambito degli appassionati di pittura.
Il suo incontro con Giovanni Lomi lascia tracce nell’animo e nell’espressione artistica del giovani pittore: Adolfo Tommasi è, infatti, l’unico maestro che egli abbia avuto. Va riconosciuto soprattutto al Tommasi il merito di aver giustamente intuito il talento del Lomi e di averlo incoraggiato e saggiamente consigliato.
Nei loro rapporti furino importanti, per il giovane artista, non soltanto i consigli ricevuti ma anche l’apprendimento che, dalla conoscenza delle opere del Tommasi, il Lomi poté trarre; forse ne seguì particolarmente la composta sintesi e la delicatezza espressiva che si riscontrano nelle migliori opere del Tommasi stesso.
Quelle figurine, ormai famose, così tipiche del Lomi hanno probabilmente un legame con le figurine del Tommasi; indubbiamente la pittura del Lomi rispecchia sensibilmente l’influenza di Livorno e segue criteri di maggior stilizzazione e corposità di smalti.
Anche nella tavolozza, nei primi periodi, vi sono atmosfere di grigi e di verdi che, nel Lomi, richiamano elementi analoghi del Tommasi; così pure un certo grafismo e segmentarismo delle forme, quel procedere alle definizioni di contorni e figure per piccoli tratti con linee spezzate dai risultati efficaci e suadenti.
Le ricerche effettuate ci hanno portato a determinare intorno al 1906 la datazione iniziale delle esperienze grafiche e pittoriche di Giovanni Lomi: periodo che coincide anche con i primi contatti con Adolfo Tommasi. Lomi era poco più che ragazzo; Tommasi già un pittore nella piena maturità ( aveva circa 55 anni; era nato a Livorno il 25 gennaio 1851). Una certa continuità e determinazione nel dipingere si riscontrerà dopo il 1910; la prima guerra mondiale interrompe, anche se non del tutto, l’attività del pittore e solo alla fine del conflitto Lomi potrà dedicarsi interamente alla professione che ha scelto.
Del primo incontro con Adolfo Tommasi abbiamo già detto negli elementi biografici: vogliamo però ancora sottolineare come gli incoraggiamenti ricevuti devono aver avuto una parte considerevole nella decisione del giovane livornese di dedicarsi interamente alla pittura.
Oltre ad alcuni consigli tecnici che, come abbiamo indicato, possono dedursi da certi aspetti delle opere del primo periodo di Lomi, l’apporto di Adolfo Tommasi, quale amico di provata esperienza artistica, fu quello, più che di maestro, di aiutare il giovane livornese nella determinazione delle proprie inclinazioni e del proprio sentire. La voltà infatti non gli manca, come ci fa rilevare  Gastone Razzaguta nel suo famoso volume “ Virtù degli artisti labronici” in un brano che riportiamo qui di seguito: “ Devesi anzitutto assegnare al Lomi una volontà di riuscire che lo portò dal nulla ai ritratti a sfumino a da questi alle prime pitture che echeggiavano i buoni consigli ricevuti da Romiti. Aiutato, dunque, da quel suo encomiabile volere e anche – bisogna riconoscere anche questo – da quella Dea che aiuta i perseveranti, il Lomi è riuscito a crearsi un suo modo di esprimersi, notorietà ed agiatezza.
La sua pittura è semplicemente discorsiva, pacata e segue un disegno appigliato a un quieto naturalismo. E per quanto non possa parlarsi di sintesi pure l’uniformità delle zone dipinte è larga e ricorrente, senza lirismi ) il che potrebbe sorprendere quando si sappia che il Lomi è anche un esercitato baritono ), e senza marcate profondità, ma anche con una certa finezza ora madreperlacea, ora grigia e ora sordamente dorata”.
Questo scritto di Razzaguta è interessante perché ci conferma che Lomi, ancor giovanissimo, ebbe validi consigli da Gino Romiti di lui più anziano e che era entrato nel “ mondo pittorico” e nella vita artistica e culturale livornese almeno quindici anni prima del Lomi.
Egli seppe comunque inserirsi rapidamente il tale “ mondo”; capì che il miglior maestro è il vero, come scriveva. Già a proposito del fattori, Gino Saviotti in occasione della mostra del Gruppo Labronico a Livorno nel 1921. Sicuramente Lomi vide queste manifestazioni dove esponevano artisti più anziani di lui e in gran parte effermati, traendone riflessioni utili alla propria espressione.
Per meglio comprendere le condizioni degli artisti intorno agli anni venti, cioè nei prima anni del cammino artistico di Lomi, riportiamo un articolo firmato Guido Wrelli apparso sul “ numero unico” del Gruppo Labronico nell’agosto del 1921: vi si può rilevare la vita dei pittori a Livorno e la situazione del Gruppo Labronico stesso.
“ IN GRUPPO LABRONICO”: Impressioni del tempo che fu e di quello che è
Dapprima, questo gruppo era il caos. Un caos di discussione e di polemiche; di speranze e di propositi: cioè un caos intelligente, ma, sempre, un caos. Allora – ciò doveva avvenire verso il principio dell’era volgare –gli artisti livornesi convenivano in quel caffè Bardi, i camerieri del quale, a furia di sentire parlare di tecnica, di espressione e di piani, avevano acquistato una competenza così sottile e così disgustosa che molti critici li invidiavano. In compenso –perché la natura è fatta di compensi – non prendevano mai un soldo di mancia. Ciò dava loro il diritto di considerarsi un po’ come i mecenati degli artisti tumultuosi che servivano e di dare, qualche volta, anche dei consigli. I migliori quadri che allora si dipingevano erano fatti, anzi, dietro loro suggerimento. Per questo ci fu che propose, addirittura, un vambio professionale; ma la proposta fu scartata. Inutile aggiungere che fu scartata dai camerieri.
Il mestiere di pittore e di artista in genere era a quei tempi poco redditizio.
Si calcola che i bozzetti avessero allora il prezzo favoloso di lire due e centesimi cinquanta cadauno, comprese, si capisce, l’indennità caroviveri e quella di eventuali trasferte sul vero. Una volta, Romiti ne vendé uno per venticinque centesimi, ma fu invitato a farla finita per gli effetti disastrosi che il suo sistema avrebbe potuto avere sul corso dei cambi internazionali. Sì, quello di pittore – di giovane pittore – era un ruolo assai difficile a sostenersi. Richiedeva un grande  e sereno spirito di sacrificio ed alcune qualità acrobatiche in soprappiù, perché spesso si trattava di saltare i pasti. La gente, anche quella che si dava l’aria d’intendersi di pittura “ a mano “, non riconosceva che l’arte ufficiale, quella cioè che, con un semplice giro di manovella, sfodera automaticamente un mucchio di diplomi e una vera collezione di certificati di buona condotta pescati un po’ dappertutto. I refrattari del Bardi erano malvisti e godevano una pessima fama. Erano i pregiudicati speciali dell’arte labronica. Ciò per tre ordini, molto rispettabili, di ragioni: 1° perché erano giovani, se non giovanissimi; 2° perché non avevano mai un soldo in tasca; 3° perché avevano dell’ingegno e della fantasia. E su quest’ultimo punto, specialmente, la gente non transigeva e non intendeva di transigere. Ciò nonostante, quegli scapigliati creatori trovavano il modo di vivere e di lavorare. Ed erano, nei loro convegni, di una giocondità spensierata ed irrefrenabile, anche sotto l’assillo del bisogno più estremo, che dal loro temperamento e , soprattutto, dai loro sogni audaci, traevano la forza di affrontare in letizia le più amare e tremende difficoltà della vita, di considerare tutto ciò che li circondava e li premeva – ostilità di professori e di critici ufficiali, spietata indifferenza e, addirittura, disprezzo sdegnoso dei più – come un fenomeno puramente contingente che doveva essere superato col conseguimento del successo.
Ho detto che questi artisti vivevano in letizia.
La sera, in quell’angolo di caffè che riceveva, di quando in quando, ospiti illustri e pur non schiavi di accostarsi a quella fresca sorgente di vivacità giovanile, la loro anima, lasciato il tormento della ricerca ansiosa, esplodeva rumorosamente in dispute ardenti che evevano tutta l’apparenza di cose perfettamente serie; in dissertazioni profonde sui più vari argomenti: dal costo degli stuzzicadenti alla filosofia di Arturo Shopenhauer; in conferenze quasi storiche; in declamazioni vertiginose e d, infine, in esecuzioni corali che provavano una volta di più come la musica, che ingentilisce i
Costumi, possa anche terrorizzare la gente.
Nessuno saprebbe descrivere una di quelle memorabili serate nelle quali il povero Gualberto canali si alleava a gino Romiti per sostenere le ragioni del sentimento danazi alle tendenze orgiastiche e tutte pagane di Renato Natali; e Corrado Michelozzi narrava con la sua bella voce di mezzo baritono la storia di quella superba conquista amatoria che, senza il ritardo fatale di un treno omnibus, lo avrebbe indubbiamente portato ad assidersi sopra uno di più celebrati troni d’Europa. Erano i tempi in cui Gastone Razzaguta, addirittura intrattabile malgrado i suoi diciotto anni,se la prendeva un po’ con tutti e specialmente con se stesso e minacciava un finimondo se qualcuno si attentava a lodare una delle sue opere; e in cui Baffoni, il padre di Mario Cocchi, componeva cori stupendi con molte stonature in chiave e dava felicemente alla luce quel Midollo di bove che è una delle pagine più ispirate della moderna scuola ispano-norvegese. Erano i tempi in cui si sentenziava allegramente che Leonardo avrebbe potuto fare molto se stesso aiutato. Che l’amore è un vizio qualsiasi e che tre cose sole al mondo meritano di essere considerate: il vagabondaggio estetico, l’ozio contemplativo e il divino lavoro interiore.
Sono passati molti anni; il successo è stato raggiunto; il gruppo labronico non è più un caos, eppure i tipi non sono mutati. Chi li conobbe allora, li rivede oggi con gli stessi caratteri e la stessa irrequieta genialità. C’è qualche capello bianco nascente e qualche calvizie che si allena a diventar veneranda: qualche preoccupazione che prima non c’era e un po’ più di serietà nel trattare con gli “ estranei”; ma, in fondo, la fisionomia di ciascuno è rimasta intatta. Così Romiti è sempre il poeta che sospira sulla caducità delle cose umane; il musicista che- oh! Prodigio- suona al pianoforte con un dito solo tutto Beethoven; il pittore che adora il grigio, purché non decampi nel verde. E Natali  è lo stesso tipo hidalgo, di quelli – direbbe Guido Da Verona – che si vestono a Piccadilly e fischiano le canzonette di Montmatre nei corridoi dell’espresso Parigi Madrid. E Michelozzi si serve ancora della chioma flessuosa per avere dei buoni pennelli senza pagarli e suscita tuttora, al suo clamoroso passaggio per le strade di Livorno, tremiti, che, se non sono di spavento, debbono essere di desiderio. E Razzaguta ha anche oggi quei terribili colloqui con se stesso che, un giorno o l’altro, lo costringeranno a madarsi i padrini.
Questi quattro furono ascritti alla vecchia guardia; Romiti poi alla “ vecchissima”, essendo dimostrato che egli dipingeva fin dai tempi di Muzio Scevola. A al cenacolo si sono aggiunte col tempo altre unità altrettanto significative, nessuna delle quali è davvero indegna di appartenere al un consenso così autorevole di illustrazioni italiane e di rompiscatole. Voglio alludere a Giovanni March, specie di uomo-selvaggio, tutto scatti di sincerità ed impeti di entusiasmo; a Giovanni Zanacchini, bella e maestosa figura di cospiratorea vita, che è tratto dal suo istinto focoso a non sognare se non bombe a mano e pugnali avvelenati; a cesare Tarrini – l’unico scultore della compagnia – anima veramente candida d’innamorato dell’arte; allo sdegnoso Rontini; a Bartolena; a Goffredo Cognetti eternamente giovane; a Cipriani; a Caprini – un “ veterano”, di recente rientrato nella “ branca” – sempre ilare come se vendesse un quadro ogni cinque minuti; a Tito Cavagnaro, che ha appreso ad essere sereno dall’osservazione della natura e che non vedrete mai con un diavolo per capello; a Mario Cocchi, sempre cupo e pensoso come se fosse continuamente sul punto di risolvere qualche tormentoso problema della vita; a Guzzi, anima eccesa e squillante di siciliano…
Restano il maestro e il critico. Il maestro Ulvi Liegi; il critico, Gino Saviotti. Il primo – come del resto appare dalla fotografia di Bruno Miniati – è un tipo perfetto di gentiluomo che, per dovere di cortesia, s’inchina perfino davanti alla tavolozza; il secondo è, nel gruppo, l’ispiratore delle più nobili iniziative e deve avere dei grandi meriti se riesce a farsi perdonare anche da un “ terrorista” formidabile come lo Zanacchini la sua qualità di insegnante e di professore.
Ma non riuscirà mai a farsi perdonare d’avermi fatto scrivere questo articolo”.
In questa atmosfera e in tale contesto continuò l’evoluzione artistica di Giovanni Lomi, sempre attirato e ispirato dalla natura come primigenia e congenita fonte ispiratrice e maestra.