Elena Pontiggia

GIOVANNI LOMI
di Elena Pontiggia

Ci sono artisti che, anche al di là del loro valore espressivo, hanno qualcosa da insegnare a un’epoca.
Prendiamo il caso di Giovanni Lomi (Livorno 1889-1969). Noto oggi soprattutto agli appassionati, ma quasi sempre dimenticato nei consuntivi dell’arte italiana del ventesimo secolo, anche se di lui hanno scritto studiosi significativi, da Ferdinando Donzelli a Dario Matteoni, Lomi è un pittore ancora da riscoprire. Eppure le sue opere avrebbero qualcosa da suggerire a un’epoca come la nostra, malata in ambito artistico di spettacolarità e sensazionalismo, e spesso alla ricerca dell’effetto, se non di una sorta di Luna Park espressivo.

La pittura di Lomi, infatti, non cerca la teatralità e ama soffermarsi su tutto quello che non è appariscente. Anzi, che quasi non si nota. I suoi paesaggi, le sue marine, le sue vedute di Livorno o dei laghi lombardi, le sue campagne con greggi e pastori, i suoi angoli di cascinali dove qualche donna cuce all’ombra e nell’ombra, ci parlano di un’arte sommessa, che non persegue l’eloquenza o il clamore.

“La migliore scenografia è quella che non si fa notare, che non cerca l’applauso a scena vuota”, diceva un maestro della scenografia come Josef Svoboda. Ma anche Lomi potrebbe ripetere qualcosa di simile per la sua pittura silenziosa, assorta.

Certo, la ricerca di un sermo humilis, di uno stile antiretorico incentrato sui soggetti dimessi, affonda le radici nella lezione di Fattori, che Lomi riprende, inserendosi nell’alveo della corrente postmacchiaiola. “Io sono uno degli ultimi macchiaioli”, aveva detto lui stesso. Tuttavia, anche nell’ambito di un realismo e di un naturalismo che prediligono le piccole cose rispetto alle grandi ed evitano ogni soggetto solenne, ogni aspirazione al sublime, Lomi si distingue per una particolare vocazione alla misura, al discorso condotto sottovoce, al dire poco, che spesso è il modo migliore per dire molto.

Facciamo qualche esempio. Nei primi anni venti Lomi dipinge Marina al tramonto. E’ un soggetto tra i più accattivanti per un pittore, ma Lomi rinuncia alla facile suggestione di un tramonto “da cartolina” e gioca sul pedale basso degli azzurri e dei grigi, appena rischiarati da un pulviscolo d’oro, da qualche impercettibile tocco di rosa. Certo, ci sono anche suoi paesaggi più commossi, tramonti più caldi e rosseggianti, ma Lomi, anche quando si abbandona all’emozione, predilige comunque un tono raccolto, introverso. Del resto proprio le marine, che sono il suo soggetto più noto e più amato, sono un esempio del suo dire silenzioso. Lomi non dipinge il mare nei momenti più eccezionali (burrasche, inondazioni, maremoti), non si sofferma sull’inarcarsi delle onde o sul sipario degli scogli. Per lui il mare coincide soprattutto con una distesa di colore, con uno stato d’animo che non si esprime a parole, ma si manifesta solo nel raccoglimento, in un muto turbamento. Non è tanto il luogo dell’agire, quanto dell’essere: un’immagine dell’infinito colta senza enfasi, in una visione quieta e sobria. L’infinito, allora, diventa un aspetto del finito e penetra, con discrezione, nella vita quotidiana.

E ancora. Nel 1938 Lomi dipinge Vecchie cantine, oggi nella collezione della Cassa di Risparmio di Livorno. Il titolo dell’opera sembra preannunciare un motivo pittoresco, soprattutto se si pensa a com’erano le cantine nella prima metà del Novecento, ricolme di utensili poveri e bizzarri, come una piccola Camera delle Meraviglie. Invece Lomi imposta il quadro su una fila di barche lontane e pone in primo piano il tremolio lieve dell’acqua, dove l’unico spettacolo è il quieto riverbero del colore.

Non diversamente si comporta quando dipinge paesaggi che gli sono meno familiari. Pittore-viaggiatore, anche se i suoi erano viaggi non avventurosi, poco interessati all’esotismo, Lomi ha spesso lasciato Livorno per spostarsi in Lombardia (dove tra l’altro poteva contare, a Busto Arsizio, sul suo collezionista più affezionato, Giuseppe Noferini), nel Lazio, a Napoli e Pompei, a Venezia, Verona, Trieste, sul Garda, in Svizzera, in Francia, in Spagna, per non parlare di soggiorni più rapidi in altre città italiane.

Di tutti questi viaggi ha lasciato una traccia nella sua pittura. E anche qui, se analizziamo gli spazi e gli elementi che attraggono la sua attenzione, vediamo che non solo elimina i soggetti monumentali e  tutto ciò che è illustre o aulico, secondo il gusto della scuola postmacchiaiola, ma negli anni della maturità predilige un colore soffuso e sommesso, privo di accensioni e intemperanze.

Quando dipinge la Piazza del Campo di Siena, per esempio, Lomi non si sofferma sui motivi per così dire turistici: la Torre del Mangia, la fontana di Jacopo della Quercia, la forma a conchiglia dello spazio. Il suo sguardo si posa invece sul movimento lento dei carretti, sul procedere affaccendato dei passanti che vanno al lavoro o a far la spesa. Così una delle piazze più singolari d’Italia, un capolavoro dell’urbanistica di tutti i tempi, si trasforma in un ambiente comune, nella cornice di una vita condotta senza glorie, tra le cure quotidiane. Ma non solo. L’armonia discreta dei toni amalgama la visione in un tessuto luminoso che procede senza squilli e senza dominanti (verrebbe da dire senza acuti tenorili), affidato soprattutto al contrasto tra zone assolate e zone in ombra.

Analogamente, per citare un altro soggetto senese, quando nei primi anni venti Lomi dipinge l’interno del Duomo di Siena (dove è proprio impossibile non imbattersi in ogni momento in un capolavoro della scultura, della pittura o del mosaico), passa velocemente davanti al pulpito celeberrimo di Nicola Pisano: per lui sono ugualmente importanti la coppia di chierichetti o di preti che scende dai gradini, o le donne vestite di scuro che sostano tra i banchi. Il suo intento è quello di eludere ogni motivo eclatante, pur senza indulgere nemmeno all’aneddoto, al compiacimento letterario, alla nota di colore (e infatti le figure, che sono viste da lontano e si perdono tra le arcate altissime della cattedrale, non sono macchiette: sono, semmai, macchie di colore).

Del resto non è diverso lo sguardo che Lomi getta su uno dei monumenti più tipici della sua Livorno: la grande scultura dei Quattro Mori che, quando compare nei suoi quadri, è relegata sullo sfondo, lasciando l’onore del primo piano a una famiglia di barche arenate nel canale o a qualche rematore.

E’ stato questo “tono basso” una delle lezioni più alte del realismo ottocentesco e della pittura macchiaiola, e Lomi la segue fedelmente, rendendola più radicale, negli anni della maturità, con la sua controllata interpretazione del colore.

Anche nel rappresentare Cristo in croce, per fare un ultimo esempio (Piangendo ai piedi della croce, 1948) elimina ogni elemento troppo espressivo. Mentre il ventesimo secolo ci ha abituati all’esasperazione dei motivi drammatici, fino a definire con l’espressionismo una poetica del brutto e del negativo, Lomi si arresta pudico, rispettoso, di fronte alla visione del dolore.

Cristo è solo, come sulla sommità del mondo, ed è visto di scorcio: possiamo immaginare il Suo tormento, ma l’artista non ci racconta le Sue ferite, lo strazio del Suo corpo. Anche la sofferenza di Maria e delle Pie donne è taciuta. Le vediamo piegate, raccolte nel loro dolore, ma nulla ci viene detto del loro volto, della loro angoscia. Tutto, anzi, è silenzio.

Quando Lomi dipinge quest’opera è il 1948. L’Italia è da poco uscita da una guerra e da una guerra civile sanguinose e sanguinarie. L’artista, poi, ha appena perso la moglie, l’amata Caterina, compagna di un’intera vita, scomparsa prematuramente pochi mesi prima. Ci sarebbero tutte le ragioni per abbandonarsi non a un pianto, ma a un grido. Anche qui, invece, Lomi procede per via di levare: suggerisce, anziché ostentare; toglie, anziché aggiungere.  Eppure, se paragoniamo questo silenzioso Calvario a certi esiti pittorici (per non dire cinematografici e televisivi) odierni, ci sembra che ci sia molto da imparare dalla sua narrazione rarefatta, dal suo modo anti-espressivo di esprimere il dramma.

Un grande pedagogista americano ha dato una volta a una coppia di genitori un consiglio rimasto famoso: “Volete fare qualcosa di più per i vostri figli? Fate qualcosa di meno.”. Parafrasando la massima, si potrebbe ripetere che anche in arte oggi c’è bisogno di dire “qualcosa di meno”. Nel caso di Lomi, comunque, questo dire di meno è sempre accompagnato da una ricerca di armonia. “La musica e la pittura sono lo scopo della mia vita”, dichiara lui stesso.

Non si tratta di una metafora. Lomi ha sempre coltivato una passione non dilettantesca per la lirica, ha cantato in diverse opere come baritono ed è stato amico di cantanti famosi, da Maria Caniglia a Magda Oliviero ad Afro Poli. Il suo talento musicale, però, si è espresso anche nel dipingere. I suoi esiti migliori, infatti, sono governati da una sottile musicalità.

La sua è una musicalità lieve, che si sprigiona dai ritmi della composizione. Ed è una musicalità che coinvolge anche il paesaggio e chi lo osserva: quando, di fronte a una laguna veneziana dove ci sono solo poche barche; di fronte a un prato dove si vede soltanto una cascina in lontananza e qualche gallina in primo piano; di fronte a una marina azzurra e grigia dove ci sono solo acqua e cielo, ogni parola è superflua. Non c’è più nulla da dire: c’è solo da ascoltare una sinfonia di colori.

In questo modo sobriamente musicale, dunque, Lomi dipinge il suo mondo e la sua concezione del mondo. Se consideriamo idealmente il corpus delle sue opere, potremmo dire che l’artista livornese ha dipinto tutta la vita un solo soggetto: la natura, nel suo rapporto con l’uomo. Non è un rapporto romantico, idealizzato o idilliaco, quello che ci descrive: è un rapporto che prevede lavoro e fatica, eppure concede anche momenti di quieta serenità.

Lungo le rive dei canali operai trasportano gli attrezzi, aggiustano le reti, controllano remi e pale; sotto le finestre dove le donne hanno steso i panni, qualche barcone lasciato dai pescatori si muove lentamente nell’acqua verde; sotto l’arco di una porta una madre sorveglia i figli senza smettere di mondare le verdure, mentre una contadina torna dalla campagna dove è andata ad attingere l’acqua; nella calura estiva, pazienti cucitrici provvedono a qualche rammendo, un pastore conduce al pascolo le greggi, un birocciaio si assopisce mentre i cavalli mangiano la biada; nell’aia razzolano le galline e i tacchini, accanto al covone approntato dopo la mietitura…

Quello che Lomi dipinge è un mondo ancora contadino, abitato da pastori e acquaiole, remaioli e pescatori: un mondo povero, umile, ma privo di quella nevrosi che è il privilegio della civiltà del benessere. E’ un mondo, il suo, dove tutti devono guadagnarsi da vivere, e quindi si industriano, si impegnano, si affaticano. Non ci sono aristocratici nei suoi quadri. E, anche se il lavoro ha ritmi  non stressanti, a misura d’uomo, tutti sembrano consapevoli della massima che Manzoni mette in bocca al cardinal Federigo. Cioè che la vita non è “destinata ad essere un peso per molti, e una festa per alcuni, ma per tutti un impiego, del quale ognuno renderà conto”.

Proprio osservando quel piccolo mondo antico, Lomi si rende conto che tante forme di vita stanno cambiando e che le tracce del passato sono destinate a scomparire. Per questo va alla ricerca di una Vecchia strada di Livorno, di Vecchie cantine, di una Darsena livornese prima della guerra, per fissarle sulla tela prima che siano cancellate per sempre. E, anche quando si reca in un paese straniero, a cui non lo legano ricordi e nostalgie, ne registra gli angoli più vecchi, i frammenti di un tempo che non c’è più (Vecchia Lucerna, 1937).

Le sue città, del resto, non hanno nulla di avveniristico: ci sono ancora i carretti con i loro cavalli, i mercati con le loro masserizie, le persone che vanno in giro a piedi, non in macchina. Perfino Parigi non ha il respiro di una capitale europea, ma la vivacità di una cittadina di provincia.

E’ un mondo insomma, quello di Lomi, che non sembra raggiunto dalla modernità e non la desidera: non per vernacolarismo o ritardo strapaesano, quanto perché non si fa illusioni sulle “magnifiche sorti e progressive” del mondo contemporaneo. E soprattutto perchè, attraverso la natura, si accosta a qualcosa di più importante della modernità, vale a dire l’eternità.

C’è una poesia di Cardarelli, intitolata Estate, che si chiude con questi versi: ”Stagione che porti la luce/ a distendere il tempo/ di là dai confini del giorno/ e sembri mettere a volte/ nell’ordine che procede/ qualche cadenza dell’indugio eterno”. Anche nella pittura di Lomi il lavoro quotidiano lascia spazio, spesso, a una meditazione profonda, a una contemplazione silenziosa del mare, delle colline, della campagna. E anche lì, fra il tremito leggero dell’acqua o delle erbe, si rivela qualche cadenza dell’indugio eterno: qualche presagio di ciò che è oltre il tempo.